Questo sito è stato creato per rendere accessibili a tutti i visitatori gli elaborati prodotti dalle classi Quinte del Liceo S.Pizzi di Capua in occasione della Giornata del Ricordo e del Giorno della Memoria

Alberto Sed: sono stato un numero


Il libro “Sono stato un numero” di Roberto Riccardi, uscito il 15 gennaio e pubblicato dalla casa editrice Giunta, racconta la storia di Alberto Sed deportato ad Auschwitz nel 1944. Nel campo di Auschwitz-Birkenau divenne A-5491. Solo un numero, in cambio di un’identità e di un’umanità violate, fatte a pezzi, cancellate. Alberto (15 anni) fu catturato per una soffiata (la vita di un ebreo valeva allora cinquemila lire, tremila se donna, mille se bambino) insieme alla madre Enrica (39) e alle sorelle Angelica (17), Fatina (13) ed Emma (8) a Roma, in un magazzino in cui la famiglia si nascondeva.
Dopo un breve periodo trascorso nel centro di raccolta di Fossoli, fu messo a forza su un treno e condotto a Birkenau. La madre e la piccola Emma furono uccise il giorno stesso dell’arrivo.
Qualche mese più tardi Angelica fu sbranata dai cani aizzateli contro dalle SS.
Fatina, sottoposta nei lager agli esperimenti del dottor Mengele, tornò a casa segnata da cicatrici profonde. Se non fosse stata scelta per gli esperimenti sarebbe morta.
Dopo due giorni di viaggio, ad Auschwitz mi separarono dagli altri e mi mandarono in una baracca. Mi rasarono e mi stamparono un numero sul braccio.
Uno, italiano, mi prese il braccio e mi disse “Adesso questo numero imparatelo bene. Ripetilo in continuazione, perché tu ora sei questo numero. 5491. Firunfucis-air-noins di nazionalità italiana”.
Mi hanno mandato in un blocco e la sera m’hanno dato un pezzo di pane, una ciotola di ferro e un cucchiaio. Dovevo portarmela sempre dietro, dicevano. Allora feci come gli altri: un buco alla ciotola e la legai ai pantaloni con lo spago.
Dopo aver mangiato una brodaglia di orzo rientrai e sentii parlare dei francesi. Li capivo, allora chiesi notizie, forse ero ancora l’unico a non sapere là in mezzo. Chiesi di mia madre e di mia sorella, ci avevano separati appena arrivati perché loro non potevano lavorare.
Uno dei francesi mi fece avvicinare alla finestra e mi indicò la colonna di fumo nero che si poteva vedere da lì.

“Guarda –mi fece premendo il dito contro il vetro incrinato in un punto- da due giorni ci stanno riscaldando con tua madre e tua sorella”. Non gli diedi peso, voleva mettermi paura.
Uscii per andare al bagno, in un altro blocco, diverso dal mio. Il bagno era un muricciolo di cemento con dei buchi dove si facevano i bisogni. Sentii qualcuno imprecare in italiano e mi avvicinai. Era un uomo, si chiamava Tasca. Era un militare e aveva combattuto al fianco dei tedeschi. Aveva perso un braccio a causa degli inglesi e dopo la caduta del fascismo i nazisti gli avevano chiesto di rimanere all’interno dell’esercito, ma lui aveva rifiutato. L’avevano internato, ma con un trattamento diverso dal nostro e lo avevano messo a guardia dei gabinetti.

Mi mise in guardia. Mi disse di stare attento, che la guerra sarebbe finita presto, che dovevo pensare solo a me, dimenticare i miei cari, lasciarli morire e così mi sarei salvato.
Mi prese il cucchiaio e con una lima che aveva in tasca cominciò ad affilarlo da una parte.
Parlò ancora. Disse che i tedeschi si divertivano a torturarci, a farci sbranare dai cani. Disse che non dovevo fare gruppo con nessuno quando uscivo dalla baracca, che altrimenti ci avrebbero preso a botte, ci avrebbero ammazzati a botte.
“Non sfidarli con lo sguardo –continuava- stai sempre con la testa bassa e finisci il lavoro che ti assegnano, altrimenti sono botte. E la sera, quando un tedesco viene a fare il controllo, vi spinge, vede chi barcolla e prende il numero. Per quello è finita. Diventa buono solo per scaldare”.
Poi mi prese il braccio, quello col numero stampato, lo lesse e mi guardò.
“Cinquemilaquattrocentonovantuno, non lo dimenticare”.


Alberto è sopravvissuto a numerose selezioni, alle torture e agli stenti. Nel lager dovette adattarsi a lavori faticosi e a mansioni terribili, come sistemare i bambini che arrivavano al campo sui carretti che li portavano al crematorio. Fu in quei giorni che vide lanciare i bambini in aria, su ordine delle SS, che si divertivano a fare il tiro a segno con i loro corpi.

Un giorno io e un altro prigioniero ci trovavamo vicino ai carretti per il trasporto dei bambini. Dovevamo farne salire a bordo alcuni, fino a completare il carico. Una SS si avvicinò indicando un bambino di un paio di mesi. Guardò il mio compagno e gli mimò l’ordine di lanciarlo sul carretto.
Il mio compagno lo guardò sbigottito e il tedesco gli puntò contro il fucile urlando di lanciarlo. Eseguì, spaventato. Fu un istante.La SS sollevò l’arma, prese la mira e… bum, colpì in pieno il bambino mentre era ancora per aria, come se fosse al poligono da tiro. Un altro imprecò e tirai un sospiro. C’era ancora qualcuno con un po’ di umanità. Mi ero sbagliato. Il tedesco, lo stesso che aveva imprecato, si mise una mano in tasca borbottando e prese dei marchi. Capii, mentre quei due si stringevano la mano, che avevano scommesso sul tiro. Lo vidi fare più volte. Eravamo sempre noi a dover portare i bambini ai loro carnefici. Noi a lanciarli per aria, sotto la minaccia delle SS che si esercitavano a colpirli mentre erano in volo.


Alberto oggi ha ottant’anni, tre figlie, sette nipoti e tre pronipoti. Ma i suoi traumi da A-5491 li porta ancora con sé: non può prendere in braccio i propri nipoti Giulia e Benjamin, di nemmeno due anni: se solo prova a sollevare un bambino, sente ancora la voce della SS che gli grida: lancialo!

Anna Salemme - Voce Narrante
Antonio Ciriello - Alberto Sed